
Da Jovanotti alla chitarra aumentata: Riccardo Onori si racconta per il pubblico di Plindo eLabel
Riccardo Onori, storico chitarrista di Jovanotti, ripercorre le tappe più importanti della sua carriera e ci parla della nuova chitarra aumentata.
Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo direttamente nel nostro studio e leggete un po’ cosa ci ha raccontato.
Come è nata la collaborazione con Jovanotti?
Si tratta di un rapporto di lunga data, ormai suoniamo insieme dal 2000. Il suo chitarrista aveva lasciato il gruppo, quindi stava cercando qualcuno che lo sostituisse: il mio nome è saltato fuori da più parti e alla fine mi sono presentato all’audizione. Avevo studiato alcuni suoi brani e pensavo che mi avrebbe valutato su quelli: invece mi ha messo a lavorare su un pezzo del nuovo album. È stato stranissimo, ma è una scelta coraggiosa e intelligente quella di valutare un musicista non per quanto riesca a riprodurre il passato ma per il contributo che può dare per il futuro. Probabilmente in questo modo ha capito di me più di quanto avrebbe fatto se gli avessi suonato “L’ombelico del mondo”.
Come funziona il processo creativo? E come si uniscono il background e le influenze di ciascuno di voi con le idee di Lorenzo?
È un processo molto aperto: i pezzi vengono costruiti in maniera corale, tutti noi partecipiamo alla scrittura delle canzoni. È sempre Lorenzo a proporci delle idee, che noi cerchiamo di interpretare e mettere in musica. Molti brani sono scritti a quattro mani. Anche quando stiamo lontano continuiamo a tenerci in contatto: ci inviamo video, canzoni, riff, tutto il materiale che può servire. Ognuno ha una sua storia e le sue influenze, cerchiamo di lavorare sugli aspetti che ci accomunano nella scrittura dei pezzi.
Hai collaborato con molti artisti, anche di calibro internazionale. Salta subito all’occhio la collaborazione con Mike Patton nel progetto “Mondo Cane”: come è stato lavorare con lui e cosa ti è rimasto impresso di quella esperienza?
È saltata all’occhio anche a me! [ride] Io non tendo a definirmi “fan” di qualcuno, ma per Mike Patton faccio un’eccezione. Credo che abbia avuto un impatto fortissimo sulla musica contemporanea: ha cambiato il rock con i Faith No More e coi suoi mille progetti, e ha cambiato sicuramente il modo di intendere il canto con la sua voce. È una persona estremamente umile: ricordo che, quando gli dissi dell’importanza del suo lavoro per la musica, mi rispose che in realtà aveva realizzato e registrato il primo album dei FNM in dieci giorni. Anche in questo sta il genio di Patton. È stata sicuramente un’esperienza indimenticabile, sono onorato di aver lavorato con lui.
Passiamo alle domande un po’ più tecniche: hai un set-up molto composito, con molti pedali. Come scegli gli effetti e che rapporto hai con la pedaliera? È un semplice mezzo per raggiungere uno scopo o è uno strumento vero e proprio?
Tutto quello che faccio è orientato alla costruzione del sound. Ho una pedaliera piuttosto articolata, l’ho tirata su nel corso del tempo. Scelgo gli effetti e i pedali in base al suono che voglio ottenere e a quello che mi può servire in un determinato momento: se devo suonare in un locale cerco di portarmi dietro l’essenziale, ma se sono su un palco sfodero l’armamentario al completo. In ogni caso la scelta è legata al tipo di suono e di effetto che mi serve, è difficile che qualcosa di quello che ho rimanga inutilizzato. Per me la pedaliera ha un fascino particolare, rappresenta proprio il “suonare dal vivo”: possiamo dire che la considero uno strumento a tutti gli effetti.
Quanto conta la scelta dell’amplificazione nella costruzione del sound? Da diversi anni ormai usi gli ampli Masotti, cosa ti ha convinto a passare a loro?
Innanzitutto sono orgoglioso di usare un prodotto made in Italy. Avere un buon amplificatore è importantissimo per avere un buon sound, e Masotti secondo me è un punto di riferimento nel settore. La collaborazione è nata quando decisi di cambiare set-up per un tour: così ho scoperto questa linea di ampli che è venuta incontro alle mie esigenze e, grazie al lavoro dei suoi creatori, ha costruito il mio sound attuale. Una delle cose che più mi ha colpito è che i Masotti offrono la possibilità di modificare i volumi grazie al doppio Master, in modo da poter aumentare la potenza per i soli o per alcuni fraseggi senza intaccare il suono e il settaggio generale.
Spesso i giovani chitarristi rimangono colpiti dalla velocità d’esecuzione o dagli assoli piuttosto che dalla parte ritmica dello strumento. Secondo te quanto è importante la ritmica nella costruzione di un pezzo e nella crescita musicale del chitarrista?
Credo che sia importantissima. Io non sono un virtuoso, non mi è mai interessato suonare velocissimo o fare assoli complicati. Credo che la cosa più importante, per ogni chitarrista, sia trasmettere qualcosa con il proprio strumento: creare un sound riconoscibile, lavorare sulle melodie, comunicare al pubblico. Prendi Keith Richards: di sicuro non è un tecnico, eppure ha fatto la storia del rock e ti bastano due accordi per capire che è lui a suonare. Poi se il virtuosismo è al servizio del pezzo e ha un’utilità nell’economia della canzone va bene, ma in generale direi che l’aspetto importante è trasmettere qualcosa. Questo non significa che uno non si debba impegnare, ma dal mio punto di vista sono meglio poche note ma giuste [ride].
Da poco hai presentato la “chitarra aumentata”. Ci puoi spiegare di cosa si tratta e come funziona?
In realtà non lo so neanche io [ride]. Il progetto è nato per iniziativa di Tommaso Rosati e Marco Politano, che mi hanno chiesto di testare lo strumento. Si tratta di una normale chitarra, in cui vengono incorporate due fotocellule e un accelerometro in modo da recepire i movimenti della mano destra e della chitarra stessa. Ad ogni movimento corrisponde un effetto: ad esempio “scuotendo” la chitarra mentre si fa una nota, questa rimarrà sospesa. In questo modo si possono costruire accordi o fare dei giri sulla nota iniziale. Oppure modulare il suono con i movimenti della mano, o ancora aumentare la frequenza del tremolo portando in alto il manico. Il primo prototipo in stile Frankenstein è stato realizzato su una mia chitarra: sono state fatte delle incisioni e sono state collegate le fotocellule; il tutto era visibile all’esterno. Poi, con la collaborazione di Noah Chitarre, è stata creata una chitarra apposita con un body in acciaio completamente vuoto all’interno in cui sono state inserite tutte le componenti. Per un chitarrista è veramente una rivoluzione: a ogni movimento si può assegnare un effetto, quindi immaginate quante cose si possono fare. E naturalmente ogni chitarrista è libero di usarla per ciò che vuole: le possibilità sono praticamente infinite. Se non sbaglio non esiste niente di simile al mondo, è un’invenzione totalmente italiana.
Hai già avuto modo di usarla per un tour, o pensi di poterlo fare in futuro?
No, per ora non l’ho usata anche perché è in fase beta, per così dire. Ci sono una serie di vincoli che rendono difficile usarla in tour: è connessa a un cavo USB, viene gestita da una scheda audio. Insomma, sarebbe complicato portarla in quella situazione. Abbiamo fatto una presentazione al Contemporanea Festival di Prato questo settembre: io suonavo e i due ragazzi si occupavano della parte software mentre dietro di me scorreva un video. Il tutto è stato pensato in una prospettiva “visual”, in modo da unire suono e vista creando una nuova prospettiva. Non mi piace fare dimostrazioni, per cui si è trattato semplicemente di una performance senza tanti fronzoli. Non è stato neanche annunciato ai presenti che si trattava di una chitarra aumentata: volevamo incuriosire il pubblico, stranirlo, presentargli qualcosa di nuovo e credo che ci siamo riusciti. Ciò non toglie che, una volta superati questi scogli iniziali, se ci sarà occasione la porterò con me in tour. Penso che apra veramente nuove frontiere per la chitarra.
Intervista a cura di Daniele Mu